Dibattito

La scelta se quotare in borsa CVA è di grande importanza per il futuro della Valle d’Aosta. 
Lo è ancor di più ora, che le modifiche alla legge Madia, ci permettono di scegliere. 
A mio parere non si tratta semplicemente di valutare il volume economico dell’operazione e i vantaggi di cassa “una tantum” che ne deriverebbero per la Regione. 

Non credo nemmeno che sia sufficiente valutare i vantaggi “imprenditoriali” per una azienda che, come qualsiasi altra impresa, si deve confrontare con il mercato e con la concorrenza in un settore competitivo come quello dell’energia da fonti rinnovabili. 
Io credo che in gioco ci sia di più. 
C’è un’idea di bene pubblico e di autonomia che non possiamo lasciare fuori dal dibattitto. 
Se la proprietà di CVA passerà, anche solo in minima parte, ai privati per il tramite della Borsa dobbiamo essere assolutamente consapevoli che cambierà la “natura” stessa di CVA.

 Passerà da “impresa pubblica” con una ragione sociale e compiti e scopi imprenditoriali (idealmente) coincidenti con il “bene pubblico” ad “impresa a partecipazione pubblica” dove le scelte e gli indirizzi della “proprietà” regionale, per quanto (idealmente) orientate al bene pubblico dovranno sempre e obbligatoriamente essere mediate con l’interesse privato di massimizzazione dei profitti dei nuovi azionisti. 

Non è una valutazione morale o ideologica la mia - ma la legge. 
La gestione in una Spa, infatti, deve essere orientata alla massimizzazione del profitto per tutti gli azionisti-soci, che vantano eguali diritti nei confronti dell'azienda.
Una gestione garante dei soli azionisti di maggioranza, anche nel caso che questi rappresentino la totalità dei cittadini, costituirebbe una violazione di gravità tale da giustificare la revoca del mandato agli amministratori. 

Per fare un esempio se la maggioranza della proprietà (pubblica) decide di abbassare le tariffe o finanziare un’opera a favore della comunità con le risorse dell’impresa non lo potrà più fare. 
Se ci pensate è logico e anche giusto per una azienda qualsiasi, ma nel nostro caso? 

Il discrimine, sul quale sarebbe utile riflettere, è se è nel “nostro” interesse che la Regione sia ancora proprietaria di una azienda come CVA. 
Se cioè lo sfruttamento delle acque, del vento e del sole per la produzione di energia elettrica sono un “bene pubblico” da tutelare e gestire a fini pubblici oppure no. 

Se la risposta è Si le considerazioni “imprenditoriali” che anche il Consiglio di amministrazione di CVA ha rilanciato pubblicamente (forse debordando un po’ dalla sua funzione) devono venire in secondo piano e spingerci a cercare un modello nuovo e più trasparente di impresa pubblica a partire dall’idea che la nostra “autonomia” si concretizza sul futuro e non sul presente. 

Se la risposta è, invece, che l’energia elettrica dovrebbe essere un affare da lasciare alla logica del mercato e della concorrenza fra i privati, credo che la scelta dovrebbe essere orientata verso la totale dismissione. Se non è un “bene pubblico” per quale motivo la Regione dovrebbe occuparsene? Non credo che sia più il tempo delle mezze misure. 
Fabio Protasoni
*  *  *  
Quotazione in borsa di una parte di CVA : Contesto generale

Quanto scritto nella legge finanziaria regionale del 21-12-2016, che prevede tra le altre cose – la collocazione in borsa – forse del 35% di CVA - ( art. 27 ) è un provvedimento in linea con quanto succede da tempo anche a livello nazionale.

Rientra a pieno titolo nella prospettiva generale : privatizzare, vendere il patrimonio pubblico, nell'illusione di risolvere i problemi di bilancio in cui si trovano le comunità locali.

Sapientemente costretti nell'angolo da un quindicennio di patto di stabilità interno
che sarebbe più opportuno definire patto di destabilizzazione sociale !) e oggi gravato dal pareggio di bilancio in Costituzione , rivolto a destrutturare il loro ruolo pubblico e sociale, gli enti locali si trovano alla stretta finale : tra vendere la ricchezza collettiva detenuta – e diventare complici della propria dissoluzione - o ribellarsi. E tornare ad essere luoghi di democrazia.

E' del tutto evidente che le società private sono interessate e molto! Ad impadronirsi delle enormi ricchezze possedute dagli enti locali ( territorio , patrimonio pubblico, servizi, acqua, energia...).

Ma questo è possibile solo a una condizione : che qualcuno decida di dare loro le chiavi rinunciando alle proprie prerogative.

Naturalmente, il progressivo svuotamento dei poteri delle assemblee elettive e delle istituzioni democratiche non avviene per qualche complotto univoco ed eterodiretto: sono infatti le stesse autorità pubbliche a promuovere la propria dissoluzione. 
Dimostrando come da tempo il “ pubblico”
abbia un po' alla volta trasformato la propria funzione da garante dei diritti e dell'interesse generale a facilitatore dell'espansione della sfera d'influenza dei grandi interessi finanziari sulla società.

Con l'alibi della crisi e la trappola artificialmente costruita del debito pubblico, si cerca di portare a termine la spoliazione delle comunità locali.

Lo schiaffo al referendum del 2011 non è un semplice effetto collaterale del “ decreto Madia” ma ne costituisce il cuore e l'anima.

L'attacco all'acqua e ai beni comuni è ampiamente in corso: in questo contesto vanno collocati nell'ordine il Jobs acts, la buona scuola e lo sblocca Italia.

Il Territorio e le sue risorse che abbiamo ricevuto in dono non è nostro. E neppure di chi si trova ad amministrarlo. Dovrebbe essere consegnato a chi verrà dopo di noi, in condizioni migliori di come lo abbiamo trovato.

Questo è già difficile da molto tempo: evitiamo di aggravare la situazione - consentendo o approvando tacitamente - avventure finanziarie che di creativo hanno solo il tornaconto di pochi!


Per il Comitato  Paolo Gino